Dipart. INTERNI: Mafia - Politica istituzionale un connubio che dura da secoli.

Una Sicilia Nazione – Stato indipendente e sovrano, eliminerebbe di fatto quel connubio politico - mafioso che ci ha governato da ben 168 anni.

 

“Come evitare di parlare di Stato quando si parla di mafia”
Giovanni Falcone

“il dialogo Stato – mafia con gli alti e bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che cosa nostra non è un’anti – Stato, ma piuttosto un’organizzazione parallela”
Giovanni Falcone

“Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio, o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”
Paolo Borsellino

 

È opinione prevalente tra gli storici che l’origine del fenomeno politico - mafioso sia legato alle due leggi di eversione della feudalità, 1808 nel regno di Gioacchino Murat e 1812 nella Sicilia anglo-borbonica.
Si hanno prove storiche di un uso della mafia siciliana e della camorra napoletana da parte delle autorità politiche e di polizia, in funzione di controllo della carboneria e della microcriminalità. Tuttavia il rapporto tra il potere politico e le organizzazioni criminali si svolge in un solo senso: le autorità influenzano e dirigono l’azione delle cosche mafiose e camorriste, in maniera utile al potere borbonico, ma, data la natura autoritaria di quest’ultimo, non esiste la possibilità per le organizzazioni criminali di esercitare una influenza verso il potere politico orientandone le scelte.

Bisognerà attendere l’unità d’Italia, il sistema liberale e l’introduzione delle elezioni politiche e amministrative perché nasca questa nuova potenzialità.

I clan capiscono subito che sostenendo le elezioni di questo o quell’altro politico possono poi utilizzare lo stesso per i propri fini influenzando attraverso essi le decisioni dei diversi Enti dello Stato, nasce così quello che noi oggi definiamo “voto di scambio” e nasce il moderno fenomeno politico - mafioso che si è protratto fino ad oggi.

Il nuovo rapporto mafie-politica che nasce con l’unità d’Italia e il sistema liberale non è stato mai semplice, lineare; ha vissuto alti e bassi, alternandosi in periodi di più o meno intense collaborazioni o repressioni.

Ogni qualvolta l’agire delle bande criminali ha raggiunto livelli tali da mettere in crisi la legittimità a governare del ceto politico è scattata la repressione per limitarne la portata.

Negli ultimi 150 anni di storia unitaria, si sono avvicendate diverse ondate repressive, nessuna delle quali si è però dimostrata risolutiva e nel corso delle quali il rapporto mafie-politica mai si è spezzato.

 

Cesare Mori, nel biennio 1926-28, volge la sua attenzione ai rapporti tra mafia e potere politico nell’isola, così da colpire la rete politica - mafiosa.

Travolge con le sue inchieste il generale Antonino Di Giorgio, comandante del 2° corpo di armata di stanza in Sicilia, e il federale di Palermo Alfredo Cucco.

La sua azione si spinge fino a coinvolgere il viceministro degli interni Michele Bianco.

A questo punto, il 16 giugno 1929, Cesare Mori riceve il seguente telegramma:

“Con regio decreto V. E. è stata collocata a riposo per anzianità di servizio a decorrere da oggi 16 giugno. F.to Il Capo del Governo”.

Di Giorgio se la caverà con le dimissioni, Cucco verrà assolto dai 33 capi di imputazione che Mori e il Procuratore Giampietro gli avevano addossati, Michele Bianchi continuerà tranquillamente a fare il vice ministro.

 

Ancora più oscure e inquietanti le vicende relative alla morte di Falcone e Borsellino e agli attentati del 1992-93, che stanno ultimamente emergendo circa il coinvolgimento dello Stato nella gestione della strategia terrorista di cosa nostra.

Ora, se uno specifico fenomeno criminale, la cui caratteristica fondante è data dal connubio tra politica e criminalità organizzata negli apparati dello Stato, connubio che in 150 anni di storia unitaria non è stato eliminato.


 

La casta politica italo - siciliana, dall’unità ad oggi, non è stata in grado di spezzare quel connubio, così come non ha voluto risolvere alcune altre questioni connesse al processo di unificazione nazionale:

Il divario socio economico tra l'area peninsulare settentrionale e l'area mediterranea.

L’elevato e costante livello di corruzione.

La diffusa pratica clientelare.

 

Va precisato che quando parliamo di “casta politica” non ci riferiamo alla totalità delle persone che lo compongono, anche se all'interno di questo sistema politico istituzionale qualsiasi politico onesto, sarebbe messo davanti alla scelta di adeguarsi al sistema o non avrebbe nessuna possibilità di essere presente nell'attività politica istituzionale, ma alla posizione politica in esso dominante, riferita a tutti partiti politici, a prescindere dell'eventuale derivazione ideologica, destra - centro - sinistra atta solo a dividere il popolo così da renderlo facilmente gestibile.

Entrare, quindi, nel merito e specificare le responsabilità di quella casta politica italo - siciliana ci sembra, pertanto, opportuno per non coinvolgere ingiustamente nel giudizio negativo quella piccolissima minoranza di politici che ha lottato e lotta contro le mafie, ma soprattutto per individuare i diversi livelli di responsabilità e possibili strategie di contrasto del movimento antimafia.

 

Il primo livello di responsabilità, il più grave, è di aver utilizzato nel corso di un secolo e mezzo sistematicamente la criminalità organizzata, in funzione di controllo delle opposizioni sociali e politiche antigovernative.

Un secondo livello di responsabilità riguarda quell’insieme di politici che riducono la questione mafiosa a problema di mera criminalità, relativo all’area peninsulare mediterranea.

Infine, veniamo a quella che a nostro avviso è la principale responsabilità del fenomeno politico -  mafioso.

L’unificazione nazionale, avvenuta con la sostanziale estraneità, se non aperta ostilità, della stragrande maggioranza dei ceti popolari dei territori colonizzati, operai e contadini, alla quale si era aggiunto l’astio del Vaticano, con il conseguente divieto per i cattolici di partecipare alla vita politica del nuovo Stato.

Corruzione e clientelismo sono presto entrati a far parte di questo strumentario, favoriti dall’eredità Piemontese dove la magistratura inquirente era sostanzialmente sottoposta al potere politico e ciò consentiva ampi spazi di manovra ai politici.

Elargizioni di quote di bilancio dello Stato a potentati e maggiorenti politici locali, da gestire con criteri privatistici, era una condizione necessaria per mediare e tenere unite, intorno ad un centro nazionale, le variegate realtà locali e gli strati sociali popolari.

 

Nel quarantennio democristiano il ruolo di raccolta del consenso mediante il clientelismo si accentuò ulteriormente e l’opposizione comunista non fu da meno nelle aree da lei amministrate.

La corruzione rappresenta il terreno sul quale si intreccia quel connubio tra clan criminali e politica istituzionale.

Il politico corrotto accetta, quindi la sua futura azione ne resta condizionata.

Il persistente rifiuto della casta politica italiano - siciliana a sottostare ai controlli di legalità sul proprio operato e l’ostinazione a tenere in vita una sorta di “Stato patrimoniale” (per i criteri privatistici con i quali nei fatti è gestito) consentono livelli elevati di corruzione, clientelismo e voto di scambio, che sono gli strumenti con cui oggi, lo Stato – mafia governa.


Se le considerazioni sin qui fatte hanno un senso allora il fenomeno mafioso è da considerarsi un prodotto della politica istituzionale governativa italo –siciliana, e conseguentemente potrà essere definitivamente estirpato solo con una piena effettiva affermazione dello Stato di diritto; uno Stato nel quale i diritti costituzionali non siano più una concessione dei gestori della cosa nostra pubblica, ma appartengano alla sovranità popolare, in quanto tali.